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Conte alla Gds: “Vivo per l’Inter, dobbiamo tornare dove meritiamo. Quando andrò via…”

15 Novembre 2020
Conte alla Gds: “Vivo per l’Inter, dobbiamo tornare dove meritiamo. Quando andrò via…”

Antonio Conte ha parlato, in esclusiva alla Gazzetta dello Sport, nella lunga intervista tanti i temi trattati dal mister interista:

«Vivo per  l’Inter 24 ore al giorno, senza sosta, con un unico obiettivo: aiutare la società a tornare
stabilmente tra i top club, dove la storia vuole che stia. La vittoria finale non è mai scontata o garantita, si crea attraverso un lungo percorso fatto di passione, lavoro, fatica, sacrificio, cura dei particolari. Ho sempre lavorato nella mia carriera in questo modo, e quando un giorno, spero lontano, andrò via, di una cosa sono certo: l’Inter che lascerò sarà, sotto tutti i punti di vista, migliore di quella che ho trovato. Come è sempre successo in ogni società dove sono stato. Fedele a un monito caro agli All Blacks nel rugby: quando arrivi trovi una maglia, quando vai via lasciala meglio di come l’hai trovata».
«Sono tutti importanti perché per essere stabilmente competitivi ad alti livelli è necessario che
ognuno dia il meglio di sé in ogni settore, alzando il livello personale e quindi quello complessivo. È la somma di questi passi in avanti che fa raggiungere la meta e segna la differenza tra i gruppi di lavoro
ambiziosi, affamati di vittoria e capaci di prendersi le responsabilità e i gruppi “seduti”, abituati ad accontentarsi e ad accettare la sconfitta».
«Molti parlano solo della vittoria come se fosse lì, facile da raggiungere, a portata di mano. Io invece parlo della mentalità vincente. Della preparazione alla vittoria. Perché, vede, si può vincere un
anno anche solo per demeriti altrui o perché ti gira tutto bene, ma essere una società vincente nel tempo è un’altra cosa. E il mio obiettivo insieme al club, è riuscire a riportare l’Inter a quel livello. Però bisogna
essere chiari e non vendere fumo: non ci si arriva grazie a un acquisto e neanche solo per le
capacità di un tecnico, perché dieci anni senza successi come quelli passati dall’Inter non sono casuali…».
«Sono un martello, lo so, ma solo così si cresce. Molto abbiamo fatto, molto ancora dobbiamo fare. Ho accettato l’incarico all’Inter sapendo di dover colmare i gap accumulati. Lavoro con questo mantra ogni santo giorno».
Qual è il momento in cui si sentirebbe di dire: ecco l’obiettivo è raggiunto?
«Quando gli avversari non avranno davanti solo 11 giocatori, ma sentiranno di affrontare una cultura, una identità, un sistema di valori, una passione e uno scopo collettivo. Scudetti o coppe sono una conseguenza. Senza una cultura della vittoria non si può mai arrivare ai successi, non almeno in modo sistematico e non a quelli che lasciano un segno. Ma la cultura della vittoria arriva attraverso il lavoro, l’organizzazione. Lo scopo comune deve essere quello di fare scelte giuste che semplifichino il percorso, non che lo complichino…».
Quando è arrivato a Milano il mondo interista ha visto in lei l’erede di Herrera, Trapattoni, Mourinho. Il grande condottiero che poteva cambiare in fretta la storia.
«Alt. Un momento. I paragoni sono lusinghieri. E la responsabilità di raggiungere i loro risultati la sento. Ma non confondiamo le epoche e le fasi storiche del club. L’Inter di Herrera e di Mourinho erano realtà consolidate. Squadre con tanti uomini che avevano già vinto tanto. Gente di personalità, abituata alle pressioni, che si prendeva le responsabilità e non sbagliava mai nei momenti decisivi. Perché la
leadership in campo non si conquista a parole, ma con i fatti… Anche la mia Inter ha dei valori importanti, voglio solo che non si confondano dimensioni diverse. Noi siamo partiti molto più indietro”.

Però l’anno scorso siete arrivati secondi e in finale di Europa League. È lecito che i tifosi sognino l’ultimo passo.
«I tifosi hanno il diritto di sognare, ma dobbiamo essere consapevoli che quella scorsa è stata una stagione anomala in cui abbiamo fatto qualcosa di incredibile anche grazie a defaillance altrui. Siamo finiti a -1 anche perché la Juve, dopo aver vinto il titolo, nelle ultime partite ha un po’ mollato. Io
paradossalmente sono più fiero di essere arrivato così davanti al Napoli, che partiva per vincere lo scudetto. Della Juve non ricordo solo il -1 finale, ma anche la partita che hanno giocato e vinto contro di noi pre-lockdown. In cui loro hanno mostrato di avere ancora intatta cattiveria e fame di successo.
Noi stiamo lavorando per non essere da meno».
Per questo c’è Conte… Nessuna squadra di A ha un allenatore già abituato a vincere come lei. Che è anche il più pagato per distacco…
«Quello che guadagno lo stabilisce ciò che ho fatto nella mia carriera. Nessuno ti regala niente nel calcio. So che vengono riposte tante speranze perché ci sono io e lo accetto. Ma anche Klopp a Liverpool è
stato i primi 4 anni senza vincere nulla ed è servito tempo e innesti importanti ogni stagione per costruire una squadra tra le più forti al mondo. Noi veniamo da anni in cui in Italia c’è una squadra dominatrice assoluta. E quando questo accade quella squadra scava un fosso tra lei e le altre, crea un
gap. Chi insegue spesso invece di lottare per colmarlo, si è adattato ad essere il primo tra i secondi. Senza lavorare su tutti quei particolari che ti portano a migliorare davvero in tutto. Voi vedete il risultato del campo. Ma le partite si vincono in settimana e per riuscirci c’è bisogno che funzioni tutto. Quando sono venuto all’Inter non conoscevo nulla… Né le strutture, né l’ambiente, né le componenti del club, né il settore sanitario. C’è voluto un po’ per capire e farmi capire. Ora conosco tutto e tutti, ed è un grande vantaggio. Sono state cambiate tante cose in un anno: i campi, la foresteria, le strutture, le abitudini. La società e chi lavora nell’Inter mi supporta e mi… sopporta (sorride, ndr). E stiamo migliorando insieme».
Sentendola parlare, l’impressione è quella di avere davanti non solo un allenatore, ma un manager.
«Io ho un’idea molto ampia e a 360 gradi della società, perché so che se non funzionano bene le cose intorno alla squadra ne risentono anche le cose dentro al campo. Venga, prendiamoci un caffè, questo l’ho consigliato io. Sentirà che aroma…».
Mi sta dicendo che è intervenuto anche sul caffè?
«Sì, ma vedrà, ne valeva la pena. Un caffè buono si vede da come lo zuccherò viene assorbito quando lo metti. Si ricordi che sono un uomo del Sud. Come diceva Nino Manfredi in quella pubblicità?».
Qui gioco in casa io… Il caffè è un piacere, se nun è bbono che piacere è! E secondo lei questa Inter è più buona, o meglio è più forte, di quella dello scorso anno?
«Numericamente siamo più strutturati. Come funzionalità di calciatori possiamo migliorare».
Dice possiamo, ma sembra un dobbiamo. Si spieghi meglio…
«I giocatori devono essere funzionali ad un’idea e a un progetto. Al gioco che bisogna fare per essere competitivi a livello nazionale e internazionale».
Indichi le tre principali caratteristiche che devono avere.
«Il calciatore moderno deve essere veloce, forte, resistente. La tecnica la do per scontata se arrivi in una società come l’Inter».
Il mercato l’ha soddisfatta?
«Gli allenatori non sono mai del tutto soddisfatti, non lo sa? Non ne troverà mai uno, si fidi… Ognuno di noi ha qualche situazione da sistemare, qualche ruolo che voleva coprire diversamente, qualche uomo
da adattare. E’ stato un mercato difficile per tutti. Sia nel comprare sia nel vendere. La società era stata chiara: si fa mercato con quello che si incassa. Il mio compito è di lavorare e rendere migliore la rosa che mi viene messa a disposizione».
È diventato aziendalista? Anche nelle sue dichiarazioni post partita sembra più conciliante.
«Io sono sempre stato un aziendalista. Il club viene prima di tutto e sopra a tutti. Per questo lavoro anche per far crescere e migliorare le strutture. E’ giusto che tutti, me per primo, lavorino in funzione del
club. Per questo posso assicurare che chiunque un giorno arriverà dopo di me usufruirà del lavoro in profondità che stiamo facendo. C’è un percorso lungo per arrivare a vincere. I nostri competitor sono forti. Il Napoli, per citarne uno, si è rinforzato molto. Senza parlare della Juve che ha gestito a suo
piacimento le ultime stagioni e ogni anno continua a mettere a segno grandi colpi».
L’Inter sta faticando più del previsto. Perché?
«L’immagine dell’Inter da parte degli avversari è cambiata, e questo significa che abbiamo fatto bene. Ma anche che le partite contro di noi vengono preparate diversamente: giocano tutti alla morte e con la
massima concentrazione. Questo campionato è più difficile rispetto a quello scorso. Dobbiamo essere bravi a cogliere i momenti giusti in partita, sprecare meno, evitare ogni distrazione. In una parola,
crescere. Il livello di guardia degli avversari si è alzato e bisogna capirlo bene».
Champions: ce la farete a passare il girone?
«Serve una impresa. Ma abbiamo dimostrato nelle tre partite giocate, nonostante i risultati
non ci abbiano sorriso, di poterci stare. E faremo di tutto per restarci».
Sono passate due ore e ancora non le ho chiesto di Eriksen… Ma se non le faccio la domanda i lettori si offendono. Vorrebbe giocare di più.
«Tutte le scelte che faccio sono sempre e solo per il bene dell’Inter non per quello del singolo giocatore».
Quella di lanciare Bastoni si è rivelata azzeccatissima…
«Un tecnico deve avere una “visione”.  Guardi un ragazzo e vedi quello che potrebbe diventare. E in Bastoni l’ho visto. Ma ora mica cominceremo a parlare dei singoli vero?».
Una sola curiosità su Vidal: è un po’ indietro finora…
«Vidal è un grande giocatore, in campo sa sempre cosa fare. Avrebbe bisogno di due settimane di allenamenti full immersion, ma si gioca continuamente e quindi dovrà prendere la forma migliore giocando. Però Arturo non si discute».
Com’è il suo rapporto con il presidente Steven Zhang?
«E’ una persona estremamente preparata, determinata, sincera. L’Inter è ormai parte della sua vita, e anche in un momento come questo nel quale deve necessariamente trascorrere del tempo in Cina, ci fa sentire il suo supporto».
Il suo mantra è far crescere il livello di eccellenza del mondo Inter, attraverso la cura di ogni minimo particolare da parte di tutti. Quanto è difficile riuscirci nel pieno di una pandemia che porta spesso e
comprensibilmente la mente altrove?
«Tanto, lo so… E’ una stagione anomala, strana, delicata, drammatica se ci guardiamo intorno. E chi gestisce un gruppo ha il dovere di capirlo. Non si può esercitare la leadership sempre nello stesso modo. Bisogna alternare bastone e carota. Abbiamo dei doveri verso società, tifosi e restare focalizzati sugli obiettivi con dedizione e concentrazione. Ma poi i ragazzi tornano a casa e magari hanno la moglie o i parenti o gli amici con il Covid. Oppure, come ci è capitato, vengono a sapere tre ore prima della partita che un loro compagno con cui si sono allenati è positivo e si preoccupano. Io magari mi arrabbio per qualcosa non fatta bene, ma poi penso anche che molti hanno avuto solo una settimana di vacanza, giocano ogni tre giorni, viaggiano con le Nazionali. Ora si è fermato anche Brozovic, un altro guaio.
Abbiamo affrontato alcune partite con 13 giocatori disponibili tra Covid e infortuni. Così la gestione è dura. Ma poi se parliamo di cosa sta succedendo negli ospedali, dei morti, di chi si ammala seriamente, il
pallone, che pure assorbe tutta la mia vita, non può che restare sullo sfondo».
Esprima un desiderio.
«Che questa pandemia passi in fretta, così come rapidamente e drammaticamente ha cambiato le nostre vite. Facciamo tutti il tifo per un vaccino».
E per Antonio Conte?
«Solo di avere sempre il giusto rispetto. Accetto le critiche, ma non sulla mia professionalità e sulla mia totale dedizione al lavoro e all’Inter. Quando lascerò questa maglia, sarà migliore di come l’ho trovata…».

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